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Seconda Epifania dell'opera d'arte MARIA, 1998

Nel settembre 1995 mi resi conto che la scultura che avevo modellato non aveva raggiunto la sua perfezione e, sebbene l’immagine fosse già stata riprodotta in otto copie di legno, ne interruppi la continuità.

Dopo quasi due anni e mezzo, l’8 gennaio 1998, nel mio studio di Maiorca, riuscii finalmente a trovare l’Icona MARIA definitiva: iniziava così il suo cammino.

Potevo toccare e guardare quella semplice forma di cera. Il tatto e la vista erano complementari.
La Immaginai allontanarsi dalle mani per diventare più grande e appartenere allo spazio esterno. Un anno dopo presso l’Università Gregoriana di Roma, in occasione della Mostra MARIA, avrei ricordato che un intermediario tra due parti scompare non appena si raggiunge l’oggetto dell’intermediazione. Questo mi suggerì la riduzione dell’Icona fino a scomparire nella mano. Questi tre momenti percettivi: l’ingrandimento (solo attraverso la vista), poi la dimensione originale (mano, tatto e vista) e, infine, la versione ridotta (solo tatto), fanno possibile un’ampia connessione con MARIA. Ultimamente, una successiva riduzione l’ha portata ad essere indossabile.

Ero consapevole delle numerose immagini, diverse tra loro, di Maria e del femminile che porta e nutre la vita, ma le vedevo come un adattamento a culture diverse e volevo anche riaffermare la loro unicità. L’Icona sarebbe stata sempre la stessa ma vestita con legni o marmi provenienti da tutto il mondo, o anche con resine o materiali riciclati.

Inoltre, la scultura originale a misura delle mani non poteva essere vista interamente, eretta, per mostrare tutte le sue sfaccettature e la sua bellezza. Come presentarla senza usare le mani? E se non si vedessero? Giocai con l’impossibile per trovare l’aria solida che potesse contenerla, ossia il vetro. Così, immaginai trentatré cilindri di vetro, alla cui sommità avrei potuto collocare, con l’inclinazione desiderata, sporte in avanti, le trentatré immagini, vestite, in allora con legni provenienti da tutto il mondo. Come una sequenza, gli anni di Gesù sulla terra avevano fatto sorgere proprio dalle terre dei luoghi che l’avrebbero ospitata, i cilindri di vetro che contenevano MARIA.

L’olfatto anticipa ed evoca: da qui la distillazione di erbe, piante, fiori e legni per ottenere le fragranze che da allora l’avrebbero annunciata e accompagnata.
Mostrai poi la scultura al mio amico poeta Carles Duarte. Ne rimase affascinato e scrisse la poesia che completava l’icona con la parola.
Le mani sono una sosta dove imparo a invocarti“. Questa intuizione poetica con cui termina la sua poesia “Madre di Dio secondo Guido Dettoni” definisce anche il nucleo del mio lavoro: le mani come strumento di conoscenza concreta, che precede e provoca quella astratta.

Guido Dettoni della Grazia